nel frattempo sono cresciuto e invecchiato e rinato e di nuovo invecchiato e il mondo si è attorcigliato come un assolo frenetico e io con lui e poi sono tornato di nuovo dietro la macchina da presa a fare quello che sognavo vent’anni fa e ci ho messo davanti i miei sogni e le mie paure e le mie sensazioni quelle belle e le mie sensazioni quelle brutte e ci ho messo la speranza e la follia e ho mischiato tutto e l’ho fatto ribaltare e l’ho schiacciato e scarabocchiato e l’ho guardato con sospetto e l’ho abbracciato ed è ancora là che aspetta di essere finito e poi stanotte mi affaccio alla finestra e mi accorgo che soprattutto ci ho messo la notte e la luna e l’ostinazione e la musica e me
inseguendo il treno di fianco alla ferrovia scansando le erbacce e i ferri arrugginiti e le ortiche e l’odore di metallo al sole e le ringhiere rotte io corro e mi affanno e il fiato quasi mi muore in gola e mi muovo freneticamente e muovo le cosce e muovo i piedi e poi c’è il sudore che scorre volgare sulle mie tempie e un po’ dentro le tempie scorrono i ricordi quelli dei dodici anni e quelli dei diciotto e poi quelli dei venticinque e dei ventisette e quelli dei trentatrè anni e dei trentasei e dei trentanove scorrono le esperienze e i rimpianti e i rimorsi e il treno che lo sento ma è lontano e io lo inseguo come un forsennato assolo di coltrane in una rara formazione in trio di basso batteria e sax in cui tutto si mischia pedali e corde grasse e bacchette e ance e piatti e bocchini e ottone e saliva e sudore che scorre volgare sulle mie tempie mentre inseguo il treno e inseguo Trane e io ci ho provato in tanti modo a buttare fuori quello che sento io ci ho provato con le parole e con le immagini e con i suoni e poi con i movimenti e con l’immobilità e ci ho provato di getto e ci ho provato con calma poi ci ho provato con l’istinto e ci ho provato con la ragione e sto ancora qui ad inseguire il treno con il fiato che muore in gola mentre muovo le cosce e scanso le erbacce io che ho il cuore pieno di un’amore infinito corro e inseguo il treno come un tossico in crisi di astinenza artistica e poi un cartello mi si para davanti con scritto novanta novantacinque cento come quello vicino la ferrovia vicino casa mia vicino alla mia infanzia e c’è la ruggine e dietro un cielo pieno di nuvole bianche e gonfie e corro e inseguo il treno senza soste e il fiato quasi mi muore in gola e il sudore scorre volgare sulle mie tempie e la progressione armonica dei pensieri è veloce e sconnessa e sincera e davanti a me non vedo il treno ma il mare e per un attimo impreco dentro e mi stupisco perché i binari finiscono nell’acqua e scompaiono tra le onde e io non mi fermo e corro e il mare è sempre più vicino e i binari davvero si immergono nella spuma delle piccole onde che sbattono sulla battigia e io continuo a muovere le cosce e i piedi e sono sereno e senza paura perché lo capisco che è proprio qui che il treno voleva portarmi quel treno che mi ha fatto scorrere il sudore sulle tempie e ricordare e scrivere e amare e morire il fiato in gola e gioire io lo sento questo mare mentre i piedi si bagnano e poi si bagnano i polpacci e le ginocchia e le cosce e poi tutto il resto fino alla gola e le labbra e il naso e gli occhi e però non gli chiudo gli occhi li lascio aperti e lì in fondo al mare lo vedo il treno che ho inseguito lo vedo nel suo splendore bagnato e arrugginito e il fiato in gola non muore più e faccio un meraviglioso respiro e mi siedo dentro la locomotiva di quello che a prima vista sembra essere un regionale
è guardando dalla finestra la maestosità di questi palazzi altissimi uno vicino all’altro e per la strada solo la notte e i lampioni accesi e nessuna persona e le pozzanghere sull’asfalto e il silenzio rotto solo da qualche generatore di corrente che si attiva in lontananza ebbene è proprio adesso che rifletto sulla mia strana misantropia nel senso che ormai non sopporto più le persone non sopporto il confronto e le formalità e le informalità ma adoro tutto ciò che l’uomo ha realizzato e continua a realizzare e lo so e mi rendo conto che è strano ma adoro i palazzi e le finestre e i tralicci della corrente e le radioline con l’antenna e le musicassette e il cinema e però non ne voglio sapere niente delle persone che le hanno realizzate e non rispondo al telefono ma leggo romanzi avvincenti e poesie piene di vibrazioni e mangio formaggio stagionato e bevo vino lasciato a decantare e probabilmente se avessi conosciuto miles davis o federico fellini probabilmente li avrei trovati insopportabili anche se hanno creato pura magia e sono felice di non averli mai conosciuti e di non aver dovuto parlare con loro e salutarli e sono felice di essermi solo emozionato con ciò che hanno creato e continuo ad affacciarmi alla finestra e a usare sapone alla lavanda e a volte mi lascio trasportare dai miei pensieri e a volte no a volte semplicemente mi godo solo la gioia di ascoltare a love supreme da un piccolo disco di plastica che gira velocissimo dentro altra plastica e petrolio e metallo e elettricità su cui hanno lavorato decine e decine di persone sparse per il mondo che ho la fortuna di non dover conoscere né scambiarci mezza parola
Se n’è andato Ferlinghetti. Aveva 101 anni e ha vissuto una di quelle vite piene che segnano un secolo quindi non c’è da avere tristezza ma semplicemente ammirazione. Ferlinghetti era famoso soprattutto come editore e sono sicuro che i coccodrilli che stanno uscendo in queste ore si concentreranno su questo, sul coraggioso editore della beat generation che negli anni ’50 pubblicò le prime opere di Ginsberg, Kerouac, Corso, e il suo essere condannato e arrestato per oscenità per aver dato alle stampe Urlo di Ginsberg.
Ma per me è stato soprattutto un poeta straordinario. Il mio poeta straordinario preferito. Il poeta che ha trasformato la percezione che avevo della poesia quando a 17 anni comprai in edicola a 5900 lire un libro economico della Newton intitolato “Questi sono i miei fiumi”. Per la prima volta, leggendo quei versi, ho sentito le parole come carne viva, ho sentito le parole che toccavano corde per me sconosciute. È stata una specie di rivelazione. Sono entrato quindi nel mondo della beat generation leggendo molti libri di molti autori. Alcuni li ho trovati meravigliosi, altri meno. Ma sono stati i suoi, e soltanto i suoi, a coinvolgermi in maniera totale. Come se fosse riuscito a trovare le parole per esprimere esattamente quello che provavo. Con la stessa ironia, la stessa irriverenza e la stessa dolce malinconia che sentivo dentro. L’apice della connessione l’ho avuto leggendo il suo capolavoro che poi è diventato il mio libro di poesia preferito. Anzi uno dei mie libri preferiti in assoluto. “A Coney Island of the mind”. Ogni poesia un brivido dietro la schiena, come quando qualcuno di soppiatto ti coglie di sorpresa, come quando scoprono i tuoi sentimenti più profondi. Una specie di alchimia e lui era l’alchimista. A volte ci riusciva anche con poche, pochissime parole. Viene da se che Ferlinghetti abbia segnato la mia adolescenza e gli anni a seguire. È anche colpa sua se mi sono messo a scrivere. È anche merito suo se ho deciso che scrivere non sarebbe diventato un mestiere. Nel corso degli anni l’ho abbandonato e poi ritrovato e abbandonato e ritrovato. L’ultimo ritrovo è stato l’autunno scorso, quando vidi sullo scaffale di una libreria A Coney Island. La mia vecchia copia era andata smarrita tra i tanti traslochi e quindi l’ho ricomprata e riletta. Ed è stato come leggerlo per la prima volta. Stesse emozioni e stessa meraviglia. Poi sono andato a cercare nella mia vecchia camera in casa di mia mamma il suo primo libro che ho comprato. Quell’edizione economica a 5900 lire del 1997. Quella l’ho ritrovata. Mi ero promesso di rileggerla quanto prima. Poi ieri Lawrence Ferlinghetti è morto. Ora, queste righe che sto scrivendo potrebbero finire in modo retorico. Ma anche no. Andiamo, dai, andiamo, svuotiamoci le tasche e scompariamo dando buca a tutti i nostri appuntamenti.
ho buttato la felpa e il telefono e le scarpe e ho guidato sotto la luna di marzo e ho trovato questa pensione vicino alla stazione di servizio e ho preso una stanza e ora l’unica cosa che mi rimane è una radiolina, una pistola e una finestra nel quale guardare il futuro che non è proprio come mi ero immaginato perché sono un latitante e immaginavo fughe rocambolesche dalla polizia e invece d’improvviso si è fermato tutto e alla radio dicono che si tratta di una pandemia e che non si può uscire e la strada è deserta e il parcheggio del benzinaio è vuoto e anche il benzinaio è vuoto se non si considera qualche sparuto camion che passa senza nemmeno fermarsi e il cielo sembra più limpido e le stelle sono luminose da fare male e dalla radio escono parole e parole e parole quando invece stanotte l’unica cosa di cui avrei bisogno è della musica